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ottobre 21, 2013

Ci sono quelli che andandosene alzano un polverone, che tu non devi più trovarne aria per respirare e devi avvelenarti, riempirti i bronchi e il sangue poi di quel veleno che ti lasciano; era miele un tempo, di cui ti sei nutrita, non lo hai dimenticato, tanto che ci hai provato invano dopo a rifiutarlo quando te l’hanno trasformato.
Ci sono quelli che andandosene via devono portarsi via con sé anche i ricordi.
Distruggerteli farteli a pezzi, briciole, briciole piccolissime che non è possibile raccoglierle, metterle insieme, passano dentro i setacci e si disperdono, anche se non c’è vento, svaniscono, e se anche ne trattieni una, che ti si posa sulla lingua, o ti si incolla al viso, sul bordo di una lacrima, si scioglie, e neanche ha il tempo di sentirne il gusto, il sapore. E tra le dita sono evanescenti. Impalpabili.
Che non ti resti niente.
Che se non gli appartieni più, che urli che ti rivuoi indietro, che non vuoi te soltanto poi, ci provi ancora a difenderlo quello che senti, che lo senti ancora, che allora tu lo sappia, che tu lo senta, che sono loro che non ti hanno mai voluto, che sei nulla, meno di nulla, e meno di nulla è quello che sei sempre stata e resti.
Ci sono quelli che andandosene via fanno così rumore da confonderti, le lacrime con i sorrisi, il dolore con la passione, il fuoco con la pioggia, e il freddo e il gelo di mani che si cercano ma per dividersi e negarsi.
E mentre sei confusa ti portano via quello che resta, che glielo avresti dato tu, bastava chiederlo, non era necessario aprirti un buco in petto per rubartelo, scavare fino al fondo, strappartelo.

Bisognerebbe imparare ad andarsene in punta di piedi come quando si arriva.
Un regalo tra le mani insieme all’ incertezza, al dubbio, ce l’abbiamo tutti quando vogliamo entrare, per restare, lo pensiamo o lo desideriamo, quando lo sentiamo che non siamo di passaggio.
Lo shampoo appena fatto, il vestito buono, le scarpe, quelle buone, strofinate sul tappeto all’ingresso. Ed il sorriso più bello.
Permesso, posso entrare, scusa, vengo in pace.

A casa

ottobre 17, 2013

E’ sempre toccato a me andarla a riprendere. Ricondurla a casa. Qualunque cosa si intenda per casa.
Mai come oggi di questo compito accuso il peso, greve; un macigno di tempo, di sale, il sale di troppe lacrime a bagnarle prima e indurirle poi quegli occhi piccoli, sempre più piccoli, stanchi di luce che proietta ombre, le insidie, le insidie sono lì, nelle ombre, la notte, solo la notte è sincera, ma gli occhi si chiudono al buio e la luce torna a ferirli.
So dove trovarla, lo so sempre.
Non ci saranno tetti e mura a nasconderla, rifugi o anfratti, grotte, caverne, valli profonde.
Spazi aperti. Un prato infinito, un deserto, un lungo pontile sul mare, proteso nel nulla.
E mi parlerà con la sua voce. Senza voltarsi, non ha altro modo per farlo.
Ho quasi paura a sentirla di nuovo, mi angoscia. Eppure lo desidero.
————————————
Sono andata al pontile.
Da lontano quelle sue spalle magre si confondevano con la linea dell’orizzonte, quasi a cercarlo.
– Siediti. –
Le gambe lunghe a giocare nel vuoto.
– Siediti. –
La mano bianca e sottile solcata dai tendini tesi tra le linee grigie delle vene sotto quella pelle invisibile ad accompagnare coi gesti l’invito.
– Dove pensi di andare? –
– … –
– Non c’è nessun posto dove puoi nasconderti, ti troveranno comunque, lo sai. Ti cercheranno, non smetteranno di farlo e non puoi, non posso lasciarti qui. –
– Qui. –
Si è voltata.
Contro di me, contro la montagna, contro il mondo, contro il dolore.
E aveva gli occhi freddi e lontani, la riga scura di rimmel a disegnarne precisi i contorni, che non sa più sciogliersi, non può.
– Cosa è successo? –
– Cosa vuoi sia successo? Quello che accade sempre, ogni volta, da sempre. Per sempre. –
– … –
– Cosa faccio di male, vuoi dirmelo? Sai dirmelo? Puoi? Io ripeto. Io non faccio nulla altro che questo. Ripeto. Ripeto le loro parole, quello che dicono, quello che mi hanno detto. E per questo mi odiano. –
– Sei la memoria, e la verità. E’ il tuo destino. –
– Non è il mio destino, è la mia dannazione. –
– Non c’è un posto dove fuggire, devi tornare. –
– Tornare. –
Mi ha guardato ancora.
Poi si è tolta le scarpe, le ha poggiate sul molo, ha guardato lontano.
– Facciamo il bagno? –
– E’ inverno, Eco, e fa freddo. Torniamo a casa. –
– A casa. –

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On/Off

ottobre 14, 2013
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Perché sai uno si dice queste cose quando si innamora, quando succede, se non dovrebbe, che sarebbe stato meglio che, perché ce ne sono di momenti sbagliati, di storie sbagliate, di persone sbagliate, di situazioni che sarebbe stato meglio che. Si dice che oramai è successo, è fatta, e che uno mica ha un interruttore e quando una cosa non va bene, non può, allora preme un tasto e si spegne quello che sente.
Che poi vorrei vedere.
Vorrei vedere se ci fosse per davvero un interruttore quanti lo spingerebbero per spegnersi.
Certo sarebbe facile, sarebbe tutto più facile.
On. Off. E si ricomincia.
Che poi credo che alcuni ce l’hanno a dire il vero. O ce l’hanno puntato sempre su off e in realtà fingono di essersi accesi, fa bene sai, sentirsi accesi, fingono, anche con sé stessi.
Comunque non c’è. Non c’è un interruttore anche se appunto se ci fosse non lo so se poi sarebbe così facile usarlo. Insomma mentre sei preso. E quindi magari se ci fosse, il fatto che non c’è, che non esiste, potrebbe essere anche una scusa, una buona scusa, plausibile.
Il punto è che non siamo lampadine.
Come non siamo fuoco in un camino, o su una spiaggia d’estate, anche se l’immagine è romantica, efficace, almeno quanto scontata, ci sta tutta con l’amore no? La legna che si accende e scoppietta, e la fiamma e il rosso e il calore, e poi la legna si consuma e restano le braci, che sono ancora calde però, roventi, anche lì, sotto la cenere, che basta poco a riattizzarle, un po’ di cura, un soffio d’aria, il vento, sotto la sabbia persino, e puoi di nuovo alimentarlo il fuoco che sembrava spento e ce ne vuole di acqua dopo a spegnerlo e tanta, le lacrime magari, ma tante.
Ma non siamo neanche questo.
Perché è proprio raro che riesci a riaccenderlo quel fuoco che si è spento, che sia stata l’acqua a spegnerlo – le lacrime – o la sabbia, o che si sia semplicemente consumato, estinto.
Così pensavo a una candela. Che tu l’accendi e ce ne vuole di cura per tenerla accesa, che il vento te la spegne sai, mica come un incendio, e l’acqua, ne basta davvero poca, bisogna starci attenti, tenerla d’occhio, sempre.
E certo, si consuma.
Ma magari ci sono candele enormi, gigantesche, insomma siamo belli grossi ne abbiamo materiale da bruciare.
Il punto è che nessuno ci sta attento.
Così diventa facile che la fiamma si spenga, per quanto ci proviamo noi da soli a ripararla, a proteggerla. E la cosa triste è che ogni volta riaccenderla diventa più difficile. Che lo stoppino si piega, si bagna, si sfibra, si consuma. E anche quel che resta da bruciare è sempre meno.

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Avevo i piedi nudi

ottobre 12, 2012

Avevo i piedi nudi avanti a una finestra enorme contro il cielo rosa dell’alba che in controluce disegnava quell’immagine che per me è casa, la mia terra, il segno suo del fuoco e della vita.
Avevo i piedi nudi e le gambe, le braccia, le spalle, la pancia, la schiena, ero nuda.
Dentro i tuoi boxer che mi cadevano sui fianchi.

Dormo anche io coi boxer d’estate, come gli uomini. Come mio figlio.
Ne ho anche diversi, neanche lo so se sono stati sempre i miei, se erano di mia sorella, anche lei li usa, o dei regali, alcuni amici lo sapevano che mi piacevano, me li regalavano, quelli viola ad esempio, della Fiorentina.
Ma questo non c’entra.
Col cielo rosa, col fuoco del vulcano, con una finestra enorme con un parapetto troppo basso, con la mia terra sotto i piedi, nudi. Che mi entrava dentro.
E non la amo questa terra che non mi appartiene e mi entra nelle ossa. Mi invade e le appartengo.
Ma non l’avevo vista mai così. Neanche l’alba.
A piedi nudi.
Nuda.
Mi invade e le appartengo.
Come hai fatto tu.

Mi stringo le ginocchia al petto adesso, sono un po’ ruvide, dovrei passarci della crema, magari massaggiarle, domani lo farò, è il tempo penso, me le stringo forte, che se mi stringo forte forse mi addormento e mi dimentico che cosa sto pensando o non me lo chiedo, perché continuo a chiedermelo, lo sai, continuo a chiedermelo se tu mi hai invaso e ti appartengo, come la mia terra, e se io non ti amo allora, che non mi appartieni, sei già nelle ossa, e sono prigioniera.
O se ti amo invece.
E allora sono libera.


καταλλάσσω

ottobre 7, 2012
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–          Stai piangendo! –

–          No, non sto piangendo. –

–          Hai gli occhi lucidi. –

–          Ho messo un collirio. –

–          Stai fumando troppo. E stai troppo al computer. E dovresti farti degli occhiali che siano occhiali, non fondi di bottiglia. –

–          Sì, immagino. Dovrei fare diverse cose. E sto al computer quello che serve. Non sto fumando. Troppo. Non più del solito. –

–          …  –

–          Senti non mi bruciavano gli occhi, ok? Sto facendo degli esperimenti. –

–          … ? –

–          Degli esperimenti con i colori. Con gli occhi bagnati la luce che arriva all’iride si rifrange, si spezza, si divide, come in un caleidoscopio. Puoi vedere le cose in un modo diverso. –

–          Dovresti stare più dentro però. Cioè. Insomma l’occhio, il punto di vista. –

–          O più fuori. –

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Pagina bianca

febbraio 27, 2012

E’ quando stanno lì immobili, in silenzio,  ad aspettare che sia io a decidere, a farli agire, muovere, pensare, è allora che mi uccidono. Perché io so solo guardarli. E descriverli. Li metto lì sul foglio come li vedo nell’attimo in cui mi si rivelano. In cui una luce li illumina. Poi aspetto. Aspetto che facciano un gesto, che una ciocca di capelli cada loro sulla fronte, che qualcosa li infastidisca, che sbattano le palpebre, arriccino il naso, serrino le labbra. O che si mettano a ballare, a litigare, a fare l’amore. Qualsiasi cosa. Che si raccontino, che si ribellino anche. Un’immagine statica non parla. Chi è prigioniero non parla. Nessun ritratto dovrebbe escludere il tempo, per rappresentare la vita.

Quando restano lì immobili, in silenzio, ad aspettare che sia io a decidere per loro sento di averli uccisi, mentre li creavo. E la pagina rimane bianca.

(Tu)

febbraio 20, 2012
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E poi ho aperto le mani, ed erano piene di farfalle.

Hanno riempito l’aria.

Allora io ho respirato forte,

tutte le farfalle,

che mi hai regalato tu.

Percorsi (II)

febbraio 16, 2012

Il venti dicembre ho disfatto l’albero di Natale. Quello dell’anno scorso. Ho riposto in una scatola in ordine le luci, quelle da esterno che tutte le serie si sono negli anni bruciate e non le ho mai ricomprate, la stella di fil di ferro intrecciato, verniciato a spruzzo, di un colore oro scuro, quasi bronzo, sobria ed elegante, bellissima ma non vistosa, di quelle bellezze che amo, che devi guardarle per capire che sono belle proprio come le hai viste, che l’ho comprata per questo, perché volevo qualcosa che assomigliasse alla mia idea di bellezza, silenziosa e povera, i fiocchetti di velluto rosso, le palline di vetro colorato e quelle rivestite di carta decorata, gli angioletti di vetro trasparente, i piccoli folletti sulla scala dorata che si reggono con una mano sola, perché nell’altra portano un lumino che si accende davvero. Si accendeva. Non funzionano più e non sono riuscita ad aggiustarli. Ma ero io a metterli sull’albero di Natale che faceva mio padre, tutti gli anni, da quando ho imparato a camminare. Così, quando sono venuta via da casa, quando sono venuta in questa casa, a casa mia, li ho voluti con me. E li metto sull’albero, anche se non funzionano. Poi ho smontato l’albero e l’ho stretto forte con lo spago, prima di avvolgerlo nella carta da imballaggio. Ho preso la scala e messo via tutto, in alto, nel ripostiglio in cucina. Poi ho messo via la scala e ho spazzato. Il quadrato di mattonelle che si era finalmente liberato dopo un anno intero. Avrò impiegato un paio di ore.

Ho fumato una sigaretta e ho bevuto un bicchiere di birra. Mi andava.

Ho ripreso la scala. Ho tirato giù l’albero e la scatola delle decorazioni. Ho aperto l’involucro di carta da imballaggio piano, stando attenta a non strapparlo. Lo spago l’ho dovuto tagliare. Faccio sempre i nodi troppo stretti. Ho montato l’albero e ho allargato tutti i rami. L’ho messo sulla parete di fronte all’ingresso, dove lo metto sempre. E’ l’unico posto libero. Ho aperto la scatola e ho tirato fuori in ordine le luci, quelle da esterno che tutte le serie di sono negli anni bruciate e non le ho mai ricomprate, la stella di fil di ferro intrecciato, verniciato a spruzzo, di un colore oro scuro, quasi bronzo, sobria ed elegante, bellissima ma non vistosa, di quelle bellezze che amo, che devi guardarle per capire che sono belle come le hai viste, che l’ho comprata per questo, perché volevo qualcosa che assomigliasse alla mia idea di bellezza, silenziosa e povera, i fiocchetti di velluto rosso, le palline di vetro colorato e quelle rivestite di carta decorata, gli angioletti di vetro trasparente, i piccoli folletti sulla scala dorata che si reggono con una mano sola, perché nell’altra portano un lumino che si accende davvero. E ho rifatto l’albero di Natale. Avrò impiegato un paio di ore.

Ho fumato una sigaretta e ho bevuto un altro bicchiere di birra. Sennò poi dovevo buttarla.

L’albero è venuto identico a quello che avevo smontato.

Quando sono stanca di mangiare le stesse cose uso spezie diverse, mischio ricette, le invento. Basta usare ingredienti che in genere non uso. E per cucinare ne ho tanti.

Per fare l’albero ho solo quella scatola di decorazioni. Che non sono tante e sono sempre le stesse. E anche l’albero è sempre lo stesso. Persino il quadrato di mattonelle dove lo metto è lo stesso. E’ l’unico posto libero che posso occupare senza dare fastidio.

Ogni volta che mi faccio a pezzi spero che ricostruendomi venga fuori qualcosa di diverso, migliore o peggiore non importa, diverso. Ma è difficile riuscire a cambiare qualcosa senza cambiare ingredienti.

 

febbraio 15, 2012
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“Le tue mani sulla mia pancia.
E’ da lì che mi sei entrato nell’anima. E’ da lì che un uomo ti entra nell’anima. Non c’è un altro posto.
Ci sono parole e sguardi e odori e sapori e colori, ma quello che ti entra nella pancia non ha un altro posto dove andare.
E resta.”

B/n vs quadricromia

febbraio 12, 2012
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Non dormo. Questa notte come tante. Il dolore nel braccio non accenna ad alleviarsi. Sono ormai due settimane che mi tortura.
Cerco di immaginarmi senza. Senza braccio, intendo. Non senza dolore.
Per immaginarmi senza dolore dovrei immaginarmi senza anima. Ma dubito che senza anima sarei capace di immaginarmi. Di immaginare qualcosa.
Di immaginare che in un sogno le mie braccia tese a prenderti le braccia tese a prendermi le braccia tese ti hanno tirato fuori da quel posto dove mi sei rimasto dentro. Dove non so toccarti. Perché non so toccarmi con le mani tue.
Di immaginare che abbracciandoti alla fine forte per poi lasciarti ritornare indietro, la luce e tutti quei colori che tu mi hai insegnato, che non lo so ma io continuo a chiedermi se poi era necessario, che tu me li insegnassi tutti quei colori, si sono spenti un attimo come per dirci addio. E nel tornarmi dentro al buio hai sbagliato posto. E sei finito qui. In questo braccio che io ora provo a immaginarmi senza. E tutta quella gioia che c’era lì dov’eri anche senza toccarti è troppa qui e si fa dolore. Che le mie braccia non vedono a colori. E vedere a colori fa male.